sabato 25 aprile 2009

Dobbiamo dire grazie alla Luna?

La sua nascita risale a cinque miliardi di anni fa e fin da subito l'attrazione reciproca tra la Luna e la Terra è stata forte.
Almeno una volta al mese appare come una palla luminosa sospesa nel cielo della notte. Da sempre ha influenzato la vita dell'uomo, lo dimostrano le numerose credenze popolari che sono state tramandate fino ai giorni nostri. Con la luna piena pare che gli uomini possano assumere delle strane sembianze, trasfromandosi in licantropi, le gestanti tendano ad iniziare il travaglio oppure il favorire l'imbottigliamento del vino. Molte di queste credenze non hanno un granchè di scientifico, ma la Luna da sempre influenza il fenomento delle maree e, da una recente ricerca, sembra che grazie alle continue oscillazioni del livello del mare si sia potuta originare la vita. Lo sostiene Richard Lathe, biologo molecolare del Pieta Research di Edimburgo.
Secondo la teoria del ricercatore tre miliardi e mezzo di anni fa, data in cui si presume siano nate le prime forme di vita, le maree erano molto più frequenti vista la maggiore vicinanza tra Terra e Luna. Si stima che ci fosse una marea ogni due/sei ore e questo continuo oscillare del livello del mare provocava una diversa concentrazione salina lungo le aree costiere. Sappiamo che la vita è nata dall'aggregazione di singole molecole che si sono aggregate in lunghe catene che fungevano da matrice sulle quali si attaccavano altre molecole formando delle catene. Le doppie catene sono quelle che hanno formato gli acidi nucleici, Dna e Rna, che sono alla base di ogni forma vivente. Per Lathe, la differenza di salinità è stata la causa del disassociarsi e del riassociarsi delle molecole di Rna e di Dna.
La teoria lascia ancora dei dubbi alla comunità scientifca, ma non c'è dubbio che questa nuova scoperta ci fa sentire quanto straordinaria sia l'attrazione tra questi pianeti.

giovedì 23 aprile 2009

C'era una volta un muflone...L'origine della pecora svelata da un retrovirus

Una doppia elica di DNA all’interno dell’occhio di un vitello. Con questa immagine la rivista “Science” ha rappresentato la ricerca pubblicata sulla copertina del 24 aprile. Una data che Bernardo Chessa, ricercatore nel Dipartimento di Patologia e Clinica Veterinaria dell’Università di Sassari, non dimenticherà facilmente. A lui va il primato di essere stato il primo ricercatore sardo ad apparire sulla copertina della prestigiosa rivista americana.
Il merito di un traguardo così importante è l’originalità con cui Bernardo Chessa, in collaborazione con uno dei più importanti retro-virologi del mondo: il prof Palmarini della Glasgow University, ha condotto la sua ricerca ricostruendo la storia dell’addomesticamento della pecora. “In pratica”, dice Chessa, “abbiamo cercato di ricostruire alcuni aspetti della domesticazione della pecora attraverso lo studio dei retrovirus che hanno infettato questa specie animale nel corso di migliaia di anni. I retrovirus sono virus che hanno la capacità di integrarsi nel genoma della specie animale che infettano, si trasmettono orizzontalmente da un animale infetto ad uno non infetto come qualunque altro virus “esogeno”. Casualmente un retrovirus “esogeno” può anche integrarsi in cellule della linea germinale, da quel momento verrà trasmesso verticalmente, dal genitore alla prole, come qualunque altro gene. Durante l’evoluzione retrovirus endogeni hanno colonizzato il genoma di tutte le specie animali, uomo incluso. I retrovirus endogeni lasciano quindi una traccia indelebile nel corredo genetico dell’ospite infettato che sarà poi trasmesso alle generazioni future. “Nel genoma della pecora abbiamo individuato ventisette retrovirus endogeni” spiega Chessa “alcuni si sono integrati tra i cinque e nove milioni di anni fa, e sono comuni anche alla capra, altri si ritrovano solo nei progenitori selvatici degli ovini, mentre sei ERVs si sono integrati in tempi più recenti, sono quindi presenti solo nella pecora e non negli ovini selvatici. “Ho analizzato la presenza di questi sei retrovirus in 1362 campioni appartenenti a 133 diverse razze provenienti da tutto il mondo”, spiega il ricercatore, “partendo dal presupposto che se in due distinte pecore trovo lo stesso retrovirus endogeno, significa che queste sono filogeneticamente correlate, in altre parole hanno avuto un progenitore comune”. Le sorprese e le curiosità durante questo “viaggio” nel passato genetico dei progenitori delle pecore non mancano. “Abbiamo scoperto, tenendo conto anche dei dati archeologici, che le pecore, domesticate circa dieci mila anni fa in Medio Oriente, si sono da qui diffuse in Africa, in Asia, in Europa, dal bacino del Mediterraneo fino alle aree più a nord della Norvegia e della Finlandia, attraverso distinti episodi migratori. “Relitti” delle prime migrazioni sono i Mufloni di Sardegna e Corsica, le Soay, le Orkney e altre razze del nord Europa. Queste pecore primitive, che venivano allevate principalmente per popolare dei territori di caccia e favorire l’approvvigionamento di carne, sono state poi sostituite da pecore più “moderne” che presentavano probabilmente tratti maggiormente selezionati, forse la prima selezione da parte dell’uomo ha riguardato la produzione della lana”. Si scopre che i pastori Neolitici della prima migrazione mantenevano caratteri preistorici e non utilizzavano le pecore per sfruttare i prodotti secondari. Erano per lo più dei cacciatori e le diverse specie allevate non furono soggette ad allevamento intensivo. “Il nostro lavoro suggerisce che anche le pecore più “moderne” siano originarie del Medio Oriente, e da qui si sono poi diffuse in tutto il mondo”. Solo durante la seconda migrazione, si ha testimonianza dello sfruttamento della pecora anche per i caratteri secondari. La diffusione di queste specie ha interessato prima l’Asia sud occidentale per poi diffondersi in Europa, Africa e nel resto dell’Asia sud occidentale. Le prove di questa seconda migrazione sono presenti nelle razze attuali sparse tra l’Egitto, la Siria, Israele, l’Arabia Saudita e la Turchia attuale. Il manto di queste razze è più folto di quello delle razze appartenenti alla prima migrazione. Probabilmente una mutazione favorevole ha portato alla modificazione di questo carattere. Riconducibile alla caratteristica di queste pecore è la prima storia di abigeato raccontata nella leggenda di Giasone e degli Argonauti e del vello d’oro preso nella regione della Colchide, tra l’attuale Trebisonda, in Turchia, e la Georgia.
L’utilizzo dei retrovirus come marker genetici apre nuove frontiere per la ricostruzione di migrazioni che hanno interessato altre specie di animali. Inoltre la possibilità di poter riconoscere dal punto di vista genetico razze di pecore più primitive, in base agli ERVs presenti nel loro genoma, permette di capire meglio quali sono i pool genetici da conservare per il mantenimento della biodiversità. Non meno rilevante è che ben l’8% del genoma umano è costituito da EVRs e chissà che questo non possa portare a nuove scoperte sull’evoluzione umana.